L’industria, luogo dell’arte
A cura di Luca Beatrice
I ponti, le navi, le officine hanno una bellezza inconscia e riflettono lo spirito del momento.
Margaret Bourke-White
Che cosa accomuna un industriale e un artista? Per entrambi, vale una regola fondamentale: essere creativi.
Se è dato quasi per scontato che la creatività sia ingrediente vitale per l’arte, più difficile e riconoscerlo nel mondo dell’industria. Eppure la storia insegna, con le sue fila di uomini “illuminati” (ad esempio Adriano Olivetti e Riccardo Gualino) ai quali si deve l’intuizione di aver saputo “vedere”, che inventiva e visionarietà costituiscono un valore aggiunto nel processo produttivo, esattamente come nell’arte.
Oggi più che mai, quando la crisi dichiarata e condivisa paralizza volontà e speranze, vale la pena tener presente il suggerimento dato da Albert Einstein: se i problemi non possono essere superati con gli stessi strumenti e approcci che li hanno generati, allora e bene lasciare alla creatività il giusto peso per risolverli.
Lo prende alla lettera Bruno Guidi, imprenditore e fondatore dell’omonima azienda leader nella produzione di componenti per l’impiantistica nautica, la Guidi srl, aprendo gli spazi della sua azienda allo sguardo curioso di due artisti, la fotografa Jill Mathis e lo scultore Chris Gilmour, invitati a osservare la realtà della fabbrica dal suo interno, senza filtri o censure, rifondando un antico e fortunato binomio: industria-arte.
Dopo la mostra industria del 2011, Bruno Guidi torna a ospitare l’arte “dove per i più non c’è”, Il risultato è una doppia personale che racconta il lavoro, gli operai, le macchine, la produzione, l’innovazione e l’estetica nel settore tecnologico. L’industria e stata, già negli anni Novanta, il soggetto privilegiato per numerosi artisti affascinati dalla poetica dei non-luoghi teorizzata nel 1992 dal filosofo francese Marc Augé. Nel mirino di fotografi e sulle tele di pittori, l’edificio è stato rappresentato in tutta la sua nudità architettonica. Il gusto per l’archeologia industriale, esploso lo scorgo decennio, ha portato a una vera e propria proliferazione di progetti curatoriali e installativi dentro le tante fabbriche abbandonate di tutta Europa, imponendosi come moda nel panorama artistico contemporaneo, in rotta con il minimalismo asettico del White Cube.
Sul finire degli anni Novanta sono esplose Biennali e mostre, pensate e volute dentro contenitori disabitati, riscoperti nelle periferie urbane delle metropoli. Sull’onda di tale tendenza è cresciuta la mania di laboratori, opifici, officine, lanifici riqualificati in residenze per artisti o gallerie.
Oggi sembra ormai abusato, persino anacronistico, questo approccio occupativo di aree dismesse e cresce piuttosto una nuova etimologia del rapporto arte-industria. La crisi ha sbaragliato il fascino della decadenza e porta con sé un atteggiamento proiettato nel presente, più etico e consapevole. L’importanza dell’industria, il valore del lavoro e del genius loci sono intesi e vissuti come principi fondanti di una società attiva e competitiva, stanca di edificare sulle macerie e di risanare i suoi fantasmi. Molto meglio un’industria fatta di uomini in carne e ossa, che si adoperano per costruire il nostro futuro.
Il cuore pulsante dell’economia e il suo incontro con l’arte sono i temi di questa mostra dove, senza filtri emotivi ma piuttosto con un certo spirito verista, si riaffaccia un attuale bisogno di realismo.
Jill Mathis e Chris Gilmour hanno lavorato a stretto contatto con gli operai della Guidi srl scoprendo l’estetica della tecnologia, delle attrezzature e delle persone che le usano. Hanno incontrato le mani degli operai, i prodotti nel loro farsi, l’idea che diventa disegno industriale.
Diversi per origine, formazione e linguaggio — e scultore inglese Gilmour, residente a Udine; texana la fotografa Jill Mathis, naturalizzata italiana — i due artisti sono entrati in azienda e ne sono usciti con due racconti personali: il dinamismo del lavoro manuale e meccanico e il design microscopico dell’impiantisitca tecnologica.
Secondo una pratica di recente definizione, il modello di mecenatismo industriale adottato da Bruno Guidi ha promosso la loro ricerca artistica ponendola in stretto contatto con la committenza.
Come il maestri del fotogiornalismo internazionale targato Life, Jill Mathis abbraccia l’estetica del lavoro, nobilitandolo nel ritratto d’ingranaggi, bulloni, ferro, acqua, sudore, mani. Mathis esplora l’anima dello spazio produttivo con inquadrature e close up di protagonisti inconsapevoli del loro ruolo fondamentale e raggiungendo punte di lirismo e astrazione alla Laszlo Monoly Nagy (il primo fotografo “surrealista” che accompagnò Man Ray e la sua ricerca sulle potenzialità insite nell’oggetto in sé).
La fotografa americana non dimentica un rispetto rigoroso e devoto per i soggetti fotografati: i primissimi piani di mani indaffarate (come negli scatti di John Loengard) sono realizzati in un bianco e nero molto contrastato o in colori saturi che hanno la stessa forza materica di un bianco e nero.
Mathis conosce lo stile di Margaret Bourke-White, la prima reporter donna della storia, ed e capace di avvicinarsi al soggetto fino quasi a sfiorarne il movimento. Riecheggiano gli intenti propri del realismo ottocentesco, quel “vedere gli uomini nelle loro officine, negli uffici, nei campi, con il loro cielo, la loro terra, le case, gli abiti, le culture, i cibi” (Hippolyte Taine). Perché il rapporto tra arte e industria ha radici profonde ed è sempre coinciso con rivoluzioni e, neanche a ricordarlo, con la crisi dei sistemi economici in corso.
Pensiamo all’Ottocento francese prima e al Futurismo italiano poi. La pittura realista di Gustave Courbet e il Secondo Impero che ha polverizzato il romanticismo bucolico settecentesco per preferire lo studio documentario di gesti, strumenti, accessori. Caillebotte e Zola, Léger e il modello dell’artista-costruttore. Il Futurismo di primo Novecento ha inneggiato al dinamismo meccanico e alla velocità della società bellica, mentre nel secondo dopoguerra la Pop Art in America e il Nouveau Réalisme in Francia hanno usato i prodotti dell’industria secondo un’estetica dell’oggetto tout court, nudo e crudo.
Anche Chris Gilmour prende in prestito un materiale usato nell’industria, il cartone, e lo riqualifica per costruire i suoi cloni a scala reale.
Si trasforma nell’artista-costruttore proposto da Fernand Léger, il cui obiettivo non è tanto di realizzare un motore che funzioni, ma che obbedisca a valori plastico-estetici. ll suo modello in scala 1:1 di un piccolo yatch è accompagnato da disegni preparatori, tavole, schizzi, bozzetti di studio dentro ai quali colloca tutti quei microsistemi meccanici scoperti nel lavoro degli operai specializzati e dei progettisti della Guidi. Diversamente da quanto accade nella realtà, nel suo prototipo dello storico yatch prodotto dai Cantieri Navali Camuffo negli anni Settanta, i componenti realizzati in azienda sono messi in evidenza attraverso l’uso di diverse colorazioni di cartone riciclato con tanto di scotch d’imballaggio, stampe ed etichette adesive.
Già alle prese con i prodotti del Made in ltaly (la moka llly e la macchina per scrivere Olivetti) e brand commerciali di automobili (la Fiat5OO e l’Aston Martin DB5), cicli e motocicli (Lambretta) riprodotti a grandezza naturale, questa volta Gilmour si mette alla prova con una scultura ancora più voluminosa, che continua il sequel iconografico rivolto alle eccellenze e ai simboli della produzione industriale. La sua catena di montaggio e assemblaggio, dove persino viti e bulloni sono ricreati con dovizia di dettagli, invita a riavvicinarci al|’oggetto fatto e finito con uno spirito vergine, curioso e, suggerisce Gilmour, a “osservare con più attenzione quello che ci circonda”, quasi a fare eco alle parole di Edouard Goerg nel suo contributo alla “querelle du réalisme” del 1936: oggi non si tratta più soltanto di guardare e di vedere, ma anche di comprendere e di trasmettere.