Roberto Mastroianni, per “Industria”, 2011

La mostra Industria. Found(ry) Art in the Period of Modern Patronage di Jill Mathis (ospitata dalla Fondazione regionale ligure per la cultura e lo spettacolo nelle prestigiose sale di Palazzo Ducale di Genova) mette in scena la relazione tra lavoro, industria e moderno mecenatismo, trasformando il processo produttivo, l’impresa e “l’umano messo al lavoro” in elementi di una narrazione artistica capace di restituire la dignità e l’orgoglio del lavoro e dell’impresa e, al contempo, rendere ragione del sostrato squisitamente antropologico che tiene insieme questi fenomeni.

Il termine “Found(ry) Art” potrebbe sintetizzare bene l’operazione artistica portata avanti da una fotografa dell’ “old School newyorkese”, capace di trasformare la “Fonderia” (Foundry) in una miniera di “oggetti ritrovati” (found object / object trouvé) inserendoli in una sequenza narrativa che fa di questa mostra una mostra di “Found Art fotografica”, in cui le immagini/oggetti ri-trovati nei luoghi della produzione e del lavoro diventano oggetti artistici autonomi e capaci di rimandare a dimensioni di senso differenti in un gioco di significanti ri-articolati esteticamente.

Le immagini dei macchinari, i colori della cromatura, le presse, le mani di una forza lavoro alienata vengono infatti ri-articolati in modo da assumere il valore di significanti artisticamente orientati e soggetti a un’interpretazione, che fa degli oggetti degli elementi/segni di una enunciazione visiva, che vede nella fabbrica il luogo dell’emersione degli oggetti artistici e, nello stesso tempo, un possibile museo/galleria di quadri di archeologia e antropologia industriale.

La mostra ha, infatti, le caratteristiche per diventare un evento unico capace di aprire a un’evoluzione fotografica della “Found Art” in direzione di una “Foundry art”, trasformando le immagini dal sapore archeologico industriale in quadri espressionisti, capaci di mettere in scena il rapporto tra la macchina, l’uomo e il capitale all’interno di una dimensione di “fabbrica/fonderia”, che raramente è stata esplorata, al fine di farla diventare soggetto e oggetto di ricerca e produzione artistica. La fotografia di fonderie, fabbriche e processi produttivi è solitamente ascritta al reportage, alla pubblicità o all’archeologia industriale, in questo caso la memoria, “l’umanità al lavoro” e il mecenatismo di un’importante industriale vengono, invece, trasformati in un’operazione di forte impatto estetico.

La sequenza di una cinquantina di foto restituisce a pieno il valore di queste “immagini/oggetti ritrovati” e trasformati in quadri capaci di raccontare la passione e la fatica di un’esperienza industriale, in cui l’uomo e la macchina interagiscono all’interno di un sistema/processo/ambiente produttivo che ha segnato la cultura e la società industriale.

Da questo punto di vista, non poteva esserci location migliore che Genova per presentare un lavoro artistico di questo tipo: Genova, infatti, è (insieme a Torino e Milano) uno degli angoli di quel triangolo industriale messo in crisi dal post-fordismo e dalla terziarizzazione avanzata del tessuto produttivo. Un post-fordismo che ha visto nella fabbrica e nel lavoro un “rimosso” da cancellare, nascondere e dimenticare proclamando spesso, troppo spesso, il trionfo dell’immaterialità del lavoro e della produzione cognitiva, al fine di eliminare il nostro passato industriale, illudendosi che questa rimozione avrebbe portato ad un superamento della dimensione di fabbrica in direzione di un’emancipazione del lavoro e della produzione.

Oggi sappiamo che queste erano illusioni, nel migliore dei casi, o futili retoriche, nel peggiore, e che una società non può vivere e prosperare senza che un forte principio produttivo la muova e la faccia crescere. Contro i cantori della fine del lavoro e dell’industria, che ad essi volevano sostituire l’immaterialità della società e della finanza, questa mostra proclama la costante antropologica dell’operosità produttiva dell’uomo e il bisogno/possibilità di rendere questa operosità fonte di orgoglio e dignità ritrovata.

Questa mostra si presenta, infatti, come un’operazione di recupero, “ritrovamento” di una memoria industriale, della dignità del lavoro e dell’impresa e della memoria che ci accomuna come abitanti di un paese della forte tradizione industriale. Quasi come nemesi (rispetto alle retoriche ideologiche di un certo sindacalismo e di certa politica) sembra che, in un periodo di rimozione più o meno consapevole del proprio passato industriale, della fatica ad esso legato, del riscatto umano (materiale e spirituale) operato dal lavoro, solo un industriale/mecenate, che ha dedicato la propria vita all’impresa ed alla produzione possa accettare la sfida di recuperare, in modo non sociologico o storiografico, il passato/presente di un’attività umana e chiederne una restituzione alta ed esteticamente orientata.

Questa mostra è, pertanto, una sfida al “recupero di maniera” che un certo tipo di retoriche sociologiche, politiche o giornalistiche fanno della storia del lavoro e dell’impresa. Lanciare questa sfida è possibile grazie all’incontro che ha unito un mecenate sensibile e un’artista capace di trasformare le immagini di un processo produttivo in “quadri di umanità” dal forte “espressionismo artistico e socio-antropologico”.

Senza la grande capacità di Jill Mathis di catturare una dimensione di fabbrica, che è fatta di macchine di uomini messi a lavoro, questa operazione però non sarebbe stata possibile. Non è un caso che ci sia voluto il “colpo d’occhio” di questa artista per catturare il momento esatto in cui l’oggetto emerge dal processo produttivo o l’umano e la macchina sono messi a lavoro. Jill Mathis ha infatti la capacità unica che hanno i grandi fotografi di trasformare uno “scatto fotografico” (shot, in inglese) in un “colpo di pistola” (shot, in inglese) con il quale colpire, fermare e immortalare la realtà facendola diventare “immagine/quadro” (Bild, in tedesco) restituendo quel preciso istante, in cui il tempo (il proprio tempo socio-storico) si rapprende e si fa storia.

In questo modo la sequenza narrativa e in grado di presentarsi come una galleria di “immagini/quadro” (divise in tre parti integrate e in dialogo tra loro) capaci di restituire:

1. gli elementi del processo/sistema di fabbrica (come oggetti trovati e ritrovati) trasformati in oggetti artistici.
2. i colori e gli odori, e rumori e i silenzi del processo produttivo, restituiti nel loro impatto cognitivo ed emotivo.
3. le mani degli operai e gli oggetti prodotti, restituiti a una dignità dell’operosità umana che la catena di montaggio e l’alienazione tendono a far scomparire.

Tutti questi elementi, integrati e in dialogo tra loro, aprono una finestra su un mondo apparentemente destinato a sparire, almeno nelle nostre società opulente che si erano illuse di aver lasciato alle proprie spalle l’industria e che hanno rimosso il rapporto tra capitale-tecnologia-lavoro; rapporto che invece è sempre là a ricordarci che non vi è “prosperità senza operosità e che l’operosità senza bellezza e dignità è solo brutalità”.

Per questo motivo in questa galleria di “quadri di umanità”, in questa “sequenza narrativa di immagini”, Jill Mathis è riuscita ad operare un “doppio ritrovamento” all’insegna di una Found Art che si fa Foundry Art: da una parte, le “immagini/oggetti trovati” (found object), dall’altro gli “oggetti ri-trovati” dell’industria e della fonderia (foundry object). Alla fine, però, si ha la sensazione che questo “doppio ritrovamento” ci proponga di ritrovare un solo elemento soggiacente alla fabbrica, al lavoro e al capitale: la dignità umana che caratterizza le diverse forme di umanità in azione, che a livelli differenti si esprime o cerca di esprimersi nel lavoro salariato come nell’impresa. Questo risultato, che solo l’arte poteva cercare di perseguire, poteva essere raggiunto solo da una grande artista come Jill Mathis dimostra di essere.

Roberto Mastroianni
Torino-Genova, luglio 2011