Viana Conti, per “Industria”, 2011

Soggetti d’eccellenza: Jill Mathis e l’Arte, Guidi e l’Industria, Genova e il Mare.

I campi sono, rispettivamente, l’estetica alta del linguaggio fotografico, la tutela del marchio di famiglia, sull’area degli accessori nautica, alla luce di un mecenatismo contemporaneo, la scelta di una sede rappresentativa. Inequivocabili punti d’incontro sono la qualità, l’efficienza e l’internazionalità.

Jill Mathis è una nota e premiata fotografa texana che ha scelto di abitare la sponda piemontese del lago Verbano, Guidi è un’azienda del novarese che, con i suoi prodotti ed i suoi brevetti, ha travalicato paesi e continenti. È una motivazione profonda quella che lega l’iniziativa della mostra agli spazi della Fondazione regionale per la Cultura e lo Spettacolo, fino al 2010 intitolata a Cristoforo Colombo, individuabile nell’antica tradizione della navigazione ligure e nella presenza, sul territorio, di un cospicuo patrimonio di archeologia industriale; connotazioni queste che una fotografa americana registra a partire da uno sguardo ed una cultura altra.

Ulteriore motivo di condivisione dell’evento è la gestione, da parte della Fondazione regionale, della Wolfsoniana: la collezione d’arte moderna donata, nel 1993, dal mecenate statunitense Mitchell Wolfson e situata nel Polo museale di Nervi. Scenario espositivo è il prestigioso Palazzo Ducale di Genova, grande città portuale del mediterraneo. È quella Genova per noi, con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così – come canta Paolo Conte – che abbiamo, noi… piemontesi… mentre la guardiamo, noi, che viviamo in fondo alla campagna… in questo caso, però, Genova non è un’idea come un’altra, come recita la canzone, è centro di riferimento mondiale per il settore della nautica da diporto, sede del 51°, quest’anno, Salone nautico Internazionale, è la mitica e superba città del Mare che ospita, nei saloni di rappresentanza di Liguria Spazio Aperto, la mostra del corpus di una quarantina di opere, tanto laconicamente quando efficacemente intitolata Industria.

Jill Mathis, esponente, di statura museale, della fotografia d’arte, è espressione di una filosofia americana della concretezza e positività.

È come se ricomponesse, frammento per frammento, gli organi di un grande corpo attivo e vitale, nel suo approccio al mondo di accessori nautici, come valvole, prese mare, filtri, raccorderie, ombrinali, parco macchine, dispositivi di verifica, manicotti, bulloni, rondelle, chiavi, inglesi, fornaci, officine, tutto un universo che sa di mare e di fuoco, di vapori e di odori, di silenzi e di rumori. Si riconferma ricercatrice, attraverso l’immagine fotografica, di un racconto visivo inteso come parallel text di parole e immagini.

Testo parallelo che, nella ripresa di un insieme o di un dettaglio, non cessa di registrare una storia, un’intensità, una passione. L’esito di questa sua pratica ideativa ed operativa è una sequenza di opere fotografiche che narrano, toccando alti effetti pittorici, attraverso luce e colore, forma e struttura, l’epica del lavoro quotidiano.

Le mani, sovente riprese come soggetto della foto, intervengono, nel contatto diretto con l’oggetto meccanico, a esprimere, come terminali della mente, della forza di volontà, della sensorialità, al di là di ogni parola, la dedizione al lavoro, l’intenzione di portarlo a termine nei tempi e nei modi progettati.

La sua la sua poetica del lavoro si evidenzia nel taglio di un primo piano in cui un congegno meccanico in metallo, dei riflessi turchesi, dialoga con il panneggio di una tenda dorata, in cui una coltre di polvere luminescente accarezza superfici segnate dal vissuto, in cui intorno a un accessorio in funzione sbuffano schizzi liquidi. Le apparecchiature, immobilizzate come sculture dal fermo-immagine, vengono riprese tra le architetture dell’officina, come punti colore. Ecco che le lamelle di un manicotto vengono ritratte come le pieghe di una gonna per la festa, che una rete metallica su una superficie di profondo turchese fà trasalire, che la ritualità di certi gesti in fornace, come la colata di metallo incandescente da un mestolo, solleva una colonna rosata di vapori: un incendio aereo di punti luce.

Nel suo rapporto con il reale, questa artista dal grande, sensibile e iconicamente imprevedibile immaginario, coglie il segreto della materia e l’energia potenziale degli oggetti che riprende, coglie il silenzio profondo sotteso ai frastuoni di un’officina, e li rappresenta in una trasfigurazione che sfiora un’aura mistico-sacrale. L’esito di questa sua opera non è diverso da quello che avrebbe potuto realizzare, e di fatto ha realizzato, fotografando gli incantevoli paesaggi della Baraggia o ritraendo carismatici personaggi.

Nello slittamento dalla presenza fisica all’immagine, i soggetti di Jill Mathis acquistano una seconda verità, un’intensità comunicativa, una natura altra: quella scaturita dallo sguardo, dalla cultura, dall’esperienza sul campo, dalla visione del mondo, che la lingua tedesca traduce con il termine Weltanschauung, di un artista. È leggibile una certa storia dell’arte nella sua opera fotografica: nel bianco e nero dei suoi tagli esteticamente, ma diversamente, classici, nelle foto d’ambiente, dense di seduzione e atmosfera, c’è la qualità del suo sguardo, uno sguardo, per così dire, “sinfonico”, tonale, spazialmente coinvolgente e aperto.

Formatasi, nel bianco e nero, sulla fotografia anni trenta del New Deal, della New York School, sui contrasti luce-ombra e le simmetrie di Alfred Eisenstadt, sulle librate tensioni plastiche della Leni Riefenstahl dei Giochi olimpici del 1936 a Berlino, prende le distanze dagli stilemi della foto di reportage e pubblicitaria. Nel colore, Jill Mathis ricrea un clima pittorico di un certo Espressionismo astratto, la fluidità del mosso di un Rothko, lo scenario realista metropolitano di un Edward Hopper, il geometrismo astratto di Albers, le inquadrature neo-geo di Peter Halley.

Le sue astrazioni illuministiche superano la quotidianità degli oggetti che ritraggono per sublimarsi in una visione in cui il finito dialoga con l’infinito.

È sulla base della sinergia tra le componenti concrete e metaforiche, della sinestesia tra visivo, sonoro, olfattivo, che mostra e catalogo si fondano, curando la qualità dell’allestimento parallelamente a quella grafica dell’impaginato, della selezione delle immagini in sequenza e della scelta del formato.

Leggendo, una dopo l’altra, le opere che costituiscono la presente mostra, prende forma, nella mente di chi guarda, il concetto di “astanza” – una parola, derivante dal latino adstare, ribattezzata come termine astratto da Cesare Brandi che la mette in rapporto a flagranza – intesa come epifania di un’assenza, rappresentazione di un oggetto che è altrove, espressione di un ritrarsi della realtà nella forma visibile di un’idea, un’idea che oltrepassa la percezione fenomenica. L’opera fotografica di Jill Mathis dischiude, nell’universo nautico di Guidi, paesaggi visivi sospesi tra realtà concreta e onirica, tra materia e immateriale.

Viana Conti
A Genova, nel mese di giugno 2011